05 maggio 2015

CONSORTE (EX UNIPOL): «SE LE COOP NON CAMBIANO NON AVRANNO FUTURO»


L'ex numero uno di Unipol: "La logica del sistema mutualistico è saltata. Troppi i nodi irrisolti"





«Così com'è il sistema non ha un futuro». Giovanni Consorte la Lega delle Cooperative la conosce bene. Per molti anni, da numero uno di Unipol e di Finsoe (la finanziaria che controlla la compagnia) ha fatto da mediatore tra le diverse anime del mondo coop.
«Guardi la fusione annunciata tra le tre grandi realtà del largo consumo, Adriatica, Nordest ed Estense. A parte le motivazioni politiche ci sono ragioni di business urgenti: ridurre i costi, aumentare il potere negoziale nei confronti delle grandi aziende produttrici, fare fronte ai problemi di un marchio, quello coop, che richiama un legame politico ormai superato. Poi ci sono problemi ancora più strutturali».
 
E cioè?
«Il prestito soci non potrà durare in questa forma. Ormai è un'attività bancaria vera e propria. Difficile che non venga prima o poi regolamentata in maniera stringente. E non può essere il ministero del Lavoro che vigila il settore cooperativo a occuparsi anche di finanza. In più c'è un limite che pesa molto nei periodi di crisi. Le coop non possono fare ricorso ad aumenti di capitale se non nella misura determinata dalla capacità patrimoniale dei soci, per definizione limitata. Il futuro potrebbe essere il modello Unipol, opportunamente adeguato: coop che diventano azioniste di normali società di capitali a cui è affidata la gestione dei diversi business».
 
L'impressione è anche che venuta meno la presenza forte dei partiti di riferimento, a contare siano degli oligarchi inamovibili.
«Una volta contavano Pci e Psi, adesso gli equilibri di un sistema di potere chiuso che si è creato con il tempo. Per un certo periodo noi di Unipol facevamo un po' da perno. Avevamo risorse finanziarie e professionalità per guidare per esempio i processi di ristrutturazione che si rendevano necessari. Tutto si condivideva a livello politico con la Lega e se necessario si prendevano anche misure come la richiesta di dimissioni dei gruppi dirigenti. Se c'era bisogno, si faceva quello che scherzando definivamo accattonaggio: si andava dalle coop in salute e si chiedeva un sostegno per chi era in difficoltà».
 
Oggi non è più così?
«La logica di sistema cooperativo per quanto mi risulta è sostanzialmente saltata; inoltre con l'operazione UnipolSai la compagnia ha dovuto concentrare le sue risorse e non può più permettersi di guardare altrove. Né dal punto di vista finanziario né dal punto di vista delle professionalità. Non solo. Anche le cooperative azioniste hanno dovuto fare uno sforzo finanziario notevole. E adesso devono fare i conti con un immobilizzo patrimoniale importante, tenendo anche conto del fatto che molte tra di loro sono in difficoltà».
 
Lei però con le coop non si è lasciato bene. Dopo la tentata scalata a Bnl i soci di Unipol chiesero le dimissioni sue e del vice presidente Sacchetti. Poi è arrivata anche una condanna per aggiotaggio.
«La condanna si riferisce al caso BpL-Antonveneta e non alla nostra operazione su Bnl. L'abbiamo subita ma non accettata, visto che nella vicenda di fatto non avevamo un ruolo attivo e il principio per cui siamo stati condannati è che non potevamo non sapere. Da Unipol mi potevo aspettare che ci sospendessero in attesa di verificare eventuali improprietà, che non ci sono state».
 
Strascichi giudiziari a parte i suoi progetti sono falliti. Non sente di aver sbagliato qualche cosa?
«No. Il fallimento è dovuto a un insieme di circostanze concomitanti. La nostra scalata dava fastidio all' establishment . Per la prima volta la sinistra metteva piede in uno snodo finanziario importante. In più in quel periodo si stava costituendo il Pd e anche al suo interno, penso per esempio ai settori più vicini a Rutelli, c'era chi non vedeva con favore il rafforzamento di una certa area».
 
E quindi...
«Quindi con il cerino in mano siamo rimasti io e Sacchetti. Nella Lega eravamo probabilmente diventati troppo ingombranti. E mi aspettavo più sostegno dai Ds, visto che avevo contribuito in modo determinante a ristrutturare il suo debito con un risparmio da 300 milioni. Tra l'altro delle 25 telefonate su Bnl che sono rimaste agli atti con Fassino, D'Alema e Latorre, io non ne ho fatta una. Le ho tutte e solo ricevute».
 


4 maggio 2015

Angelo Allegri

il Giornale


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