L'ex numero uno di Unipol: "La logica del sistema mutualistico è saltata. Troppi i nodi irrisolti"
«Così com'è il sistema non ha un futuro». Giovanni Consorte la Lega delle Cooperative la conosce bene. Per molti anni, da numero uno di Unipol e di Finsoe (la finanziaria che controlla la compagnia) ha fatto da mediatore tra le diverse anime del mondo coop.
«Guardi la fusione annunciata tra le tre
grandi realtà del largo consumo, Adriatica, Nordest ed Estense. A parte
le motivazioni politiche ci sono ragioni di business urgenti: ridurre i
costi, aumentare il potere negoziale nei confronti delle grandi aziende
produttrici, fare fronte ai problemi di un marchio, quello coop, che
richiama un legame politico ormai superato. Poi ci sono problemi ancora
più strutturali».
E cioè?
«Il prestito soci
non potrà durare in questa forma. Ormai è un'attività bancaria vera e
propria. Difficile che non venga prima o poi regolamentata in maniera
stringente. E non può essere il ministero del Lavoro che vigila il
settore cooperativo a occuparsi anche di finanza. In più c'è un limite
che pesa molto nei periodi di crisi. Le coop non possono fare ricorso ad
aumenti di capitale se non nella misura determinata dalla capacità
patrimoniale dei soci, per definizione limitata. Il futuro potrebbe
essere il modello Unipol, opportunamente adeguato: coop che diventano
azioniste di normali società di capitali a cui è affidata la gestione
dei diversi business».
L'impressione è anche che venuta meno la presenza forte dei partiti di riferimento, a contare siano degli oligarchi inamovibili.
«Una
volta contavano Pci e Psi, adesso gli equilibri di un sistema di potere
chiuso che si è creato con il tempo. Per un certo periodo noi di Unipol
facevamo un po' da perno. Avevamo risorse finanziarie e professionalità
per guidare per esempio i processi di ristrutturazione che si rendevano
necessari. Tutto si condivideva a livello politico con la Lega e se
necessario si prendevano anche misure come la richiesta di dimissioni
dei gruppi dirigenti. Se c'era bisogno, si faceva quello che scherzando
definivamo accattonaggio: si andava dalle coop in salute e si chiedeva
un sostegno per chi era in difficoltà».
Oggi non è più così?
«La
logica di sistema cooperativo per quanto mi risulta è sostanzialmente
saltata; inoltre con l'operazione UnipolSai la compagnia ha dovuto
concentrare le sue risorse e non può più permettersi di guardare
altrove. Né dal punto di vista finanziario né dal punto di vista delle
professionalità. Non solo. Anche le cooperative azioniste hanno dovuto
fare uno sforzo finanziario notevole. E adesso devono fare i conti con
un immobilizzo patrimoniale importante, tenendo anche conto del fatto
che molte tra di loro sono in difficoltà».
Lei però con le
coop non si è lasciato bene. Dopo la tentata scalata a Bnl i soci di
Unipol chiesero le dimissioni sue e del vice presidente Sacchetti. Poi è
arrivata anche una condanna per aggiotaggio.
«La
condanna si riferisce al caso BpL-Antonveneta e non alla nostra
operazione su Bnl. L'abbiamo subita ma non accettata, visto che nella
vicenda di fatto non avevamo un ruolo attivo e il principio per cui
siamo stati condannati è che non potevamo non sapere. Da Unipol mi
potevo aspettare che ci sospendessero in attesa di verificare eventuali
improprietà, che non ci sono state».
Strascichi giudiziari a parte i suoi progetti sono falliti. Non sente di aver sbagliato qualche cosa?
«No.
Il fallimento è dovuto a un insieme di circostanze concomitanti. La
nostra scalata dava fastidio all' establishment . Per la prima volta la
sinistra metteva piede in uno snodo finanziario importante. In più in
quel periodo si stava costituendo il Pd e anche al suo interno, penso
per esempio ai settori più vicini a Rutelli, c'era chi non vedeva con
favore il rafforzamento di una certa area».
E quindi...
«Quindi
con il cerino in mano siamo rimasti io e Sacchetti. Nella Lega eravamo
probabilmente diventati troppo ingombranti. E mi aspettavo più sostegno
dai Ds, visto che avevo contribuito in modo determinante a ristrutturare
il suo debito con un risparmio da 300 milioni. Tra l'altro delle 25
telefonate su Bnl che sono rimaste agli atti con Fassino, D'Alema e
Latorre, io non ne ho fatta una. Le ho tutte e solo ricevute».
4 maggio 2015
Angelo Allegri
il Giornale
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