Nel 2003 la bancarotta del grande colosso cooperativo di Argenta, il terzo crac italiano dopo Parmalat e Cirio, dove la dirigenza ha mantenuto in vita "un'azienda moribonda per salvaguardare posizioni personali e di potere". Vittime principali delle capitalizzazioni le persone comuni che versano i propri risparmi alla cosiddetta "Mamma Coop"
Un totale di 120 anni di condanne per riparare agli ideali traditi di due generazioni. Forse alle parti civili, gli ex soci prestatori della Coopcostruttori, nemmeno basterà la pena richiesta dalla pubblica accusa contro i vertici che secondo il pm Ombretta Volta provocarono la bancarotta da un miliardo di euro del gigante dell’edilizia di Argenta (Ferrara), nato, prosperato e collassato nell’orbita del filo rosso che va dal Pci ai Ds.
La requisitoria del pubblico ministero si chiuse con la richiesta di 14 anni di reclusione per il presidente Giovanni Donigaglia; 12 per il suo vice e braccio destro, Renzo Ricci Maccarini; 10 per gli altri due vicepresidenti, responsabili dei settori appalti e fabbriche, Beppino Verlicchi; 9 per Giorgio Dal Pozzo (per loro l’imputazione è associazione a delinquere finalizzata alla bancarotta). E via via a scalare verso le posizioni minori: 8 anni per i dirigenti delle società di revisione, 5 per i membri dei collegi sindacali; 3 per gli altri consiglieri.
Questo per quanto riguarda i numeri, i calcoli, la testa. Al cuore del processo si sono rivolti invece gli avvocati delle decine e decine di parti civili costituite in giudizio e che in quella cooperativa hanno lasciato quasi 80 milioni di euro. Solo un piccolo assaggio delle centinaia di persone che in quel crac datato 2003 ci persero lavoro, salute, dignità. Sì perché per loro, che di anno in anno si fidavano ciecamente delle bonarie rassicurazioni di chi era cresciuto nello stesso paese, in banco assieme o in parrocchia o nella piccola squadra di pallone, la Coopcostruttori è molto di più di un processo. La chiamavano “Mamma Coop”, erano stati allevati – loro i loro figli, o padri – a “pane e cooperativa” nella fede cieca del “mutuo aiuto” (tutte definizione uscite dalla loro bocca quando sono stati sentiti come testimoni).
A Mamma Coop prestavano una fiducia cieca al punto che molti si sentivano in dovere “di pagare la “quota associativa” perché, “da uomo di sinistra”, “la cooperativa poteva avere bisogno” ed era un “dovere morale lasciare i propri soldi lì”. Solo di fronte all’evidenza hanno capito che la loro buona fede era stata carpita “con l’inganno, con le “interpretazioni elastiche dei principi contabili” come si sono espressi i periti, con gli stratagemmi volti ad ottenere un assenso incondizionato”. Votarono quindi alle assemblee in cui si chiedeva loro di sottoscrivere le apc. E anno per anno, bilancio dopo bilancio, si sentivano ripetere le stesse rassicurazioni: “la solidità patrimoniale è elevatissima”, “l’azienda è fortemente patrimonializzata e robusta”.
A parlare è uno degli avvocati dell’accusa privata, Carmelo Marcello, che al tribunale racconta il triste florilegio delle testimonianze delle vittime. “Si è assistito al pianto dei genitori che si sono vergognati davanti ai propri figli per aver tolto loro la certezza di un futuro tranquillo da un punto di vista economico; alla vergogna dei figli per aver perso i risparmi dei genitori; alla disperazione di chi non si capacità della propria ingenuità e di chi è arrivato ad un passo dal suicidio”.
“Altri si sono ammalati gravemente”, ricorda il collega Bruno Barbieri del Codacons, che non stenta a paragonare il comportamento di Donigaglia a quello del comandante della Concordia: “come Schettino è stato il primo fuggire”.
E in quella fuga si è lasciato dietro “quello che rappresenta il terzo crac italiano per dimensioni dopo Parmalat e Cirio”, anche se in questo caso “la dirigenza non si è arricchita personalmente”, sottolinea dall’avvocato Titta Madia, legale dei commissari straordinari, ma Donigaglia e gli altri hanno voluto “salvaguardare posizioni personali e di potere”, anche a costo di “perdere 250 milioni di euro” negli ultimi sei anni.
Dietro – secondo la ricostruzione del pm – c’era “fame di denaro”, che fagocitava soldi “nell’ordine di centinaia di milioni di euro”. E questo “non per risollevare le sorti dell’impresa” e soprattutto non attraverso “capitali propri”. Il falso in bilancio secondo la procura “è stato determinante per ottenere finanziamenti, per la giustificazione che le banche hanno potuto dare ai loro investitori e agli organi di controllo”.
Fame di denaro, si diceva, ma anche di potere. “L’azienda era politicamente molto influente sul territorio” e gli intrecci tra economia e politica erano divenuti indissolubili. Lo aveva detto in aula chiaro e tondo Roberto Soffritti, il sindaco di allora: “la Coopcostruttori non avrebbe potuto dire di no alla proposta del Partito comunista di acquisire aziende in crisi, tipo la Spal. La società è stata mantenuta in vita per non perdere questo vantaggio. Ridimensionare il suo ruolo avrebbe significato perdere potere e consenso”.
Di fronte alla crisi successe tutto il contrario di quel che doveva accadere: “si disse che per sopravvivere andava incrementata l’acquisizione di commesse e per farlo era necessario un nuovo patto sociale tra cooperativa e soci”. Si chiede loro una forte capitalizzazione. È l’assemblea del 4 giugno 1993. Si decide l’accantonamento a prestito fruttifero di parte della retribuzione dei soci lavoratori, la gratuità della presenza lavorativa al sabato, l’esclusione del socio che non avesse voluto ottemperare a quelle decisioni”. Lo slogan “il sabato si lavora gratis” diventa il contrario dello spirito cooperativo: prelievo forzoso sul salario dei soci e la negazione del diritto alla retribuzione. L’intero piano ideato già dal ‘93 per uscire dalla crisi “ha aggravato lo stato di insolvenza e innescato la spirale letale”.
E intanto i soci lavoratori e prestatori facevano le comparse “come nella Parabola dei ciechi di Bruegel – è la metafora di Carmelo Marcello -: “stavano aggrappati ad un bastone per sentirsi sicuri, ma li stavano conducendo in un fosso”.
“Si è tenuto in vita un moribondo – ha aggiunto l’avvocato Claudio Maruzzi -, finché qualcuno non ha staccato la spina”.
2 luglio 2012
Marco Zavagli
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