24 novembre 2011

IL CAMBIO DI TURNO IMPOSTO, SE RITORSIVO, E' ILLEGITTIMO

Nel caso di un cambio del turno imposto ad un dipendente, qualora vi sia uno stretto rapporto cronologico tra un comportamento del lavoratore stesso e la scelta datoriale ed in mancanza di prove oggettive delle ragioni tecnico-organizzative che hanno portato a tale decisione, il provvedimento di cambio del turno può considerarsi fondato su motivi disciplinari e ritorsivi ed è quindi illegittimo.

E' quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con la sentenza del 3 ottobre 2011, n. 20196 , che, oltre ad annullare il cambio di turno disposto unilateralmente dal datore di lavoro per motivi effettivamente disciplinari, ha riconosciuto al dipendente il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale da esso provocato.

Un operaio, dipendente di un lanificio, ricorreva al giudice del lavoro esponendo di essere sempre stato addetto al turno notturno nel reparto tessitura e che, a seguito del rifiuto di seguire altri cinque telai, oltre agli undici già attribuiti alle sue cure, era stato assoggettato ad un procedimento disciplinare che, a seguito delle sue giustificazioni, non era sfociato nell'irrogazione di alcuna sanzione.

Tuttavia, qualche giorno dopo, gli veniva comunicato il cambio di turno, da notturno a diurno, per "motivi inerenti l'attività produttiva e per evitare il verificarsi di fatti molto incresciosi". Il ricorrente riteneva che tale provvedimento di cambio del turno avesse natura ontologicamente disciplinare ed apparisse altresì ritorsivo e non giustificato da ragioni tecnico-organizzative.

A causa del cambio di turno, il lavoratore assumeva di aver contratto una patologia clinica da ansia, anche conseguente ai persistenti disturbi del sonno, che lo avevano costretto ad assumere farmaci psicotropi e sonniferi. Inoltre, sempre a causa del cambio di turno, lamentava il risarcimento del danno patrimoniale da riduzione salVerdanae di circa 300 euro mensili, conseguente alla perdita della maggiorazione per il turno notturno.

Dopo l'accoglimento del ricorso ex art. 700 cod. proc. civ. e conseguente provvedimento d'urgenza di riassegnazione al turno notturno, rimasto comunque ineseguito dall'azienda, e il rigetto del ricorso da parte del Tribunale, la Corte d'Appello accoglieva la domanda dichiarando illegittimo il denunciato provvedimento di mutamento del turno, ordinando alla parte datoriale la riassegnazione del ricorrente al turno notturno e condannando la stessa parte al risarcimento del danno patrimoniale e dei danni morale ed esistenziale.

Il giudice di appello riteneva condivisibile l'orientamento giurisprudenziale secondo cui il trasferimento del dipendente per incompatibilità ambientale è legittimo, ai sensi dell'art. 2103 cod. civ., in tanto in quanto il lavoratore abbia determinato con il suo comportamento una oggettiva disfunzione di carattere organizzativo, alla quale il datore di lavoro possa porre rimedio con atti organizzativi coerenti e ragionevoli, tra i quali il trasferimento. Anche in tale prospettiva, dunque, il giudice, pur non potendo entrare nel merito della scelta imprenditoriale, insindacabile ex art. 41 Cost., deve comunque operare una duplice valutazione, da un lato accertando l'oggettiva esistenza della dedotta situazione di incompatibilità ambientale, dall'altro esaminando la coerenza e la ragionevolezza del provvedimento di trasferimento adottato dal datore di lavoro. Nella specie, tuttavia, non era stata provata nessuna oggettiva disfunzione di carattere organizzativo e, a ben vedere, la dedotta incompatibilità ambientale altro non era che il conflitto tra diversi operai, tra i quali il ricorrente e l'azienda in ordine ai carichi di lavoro del turno notturno.

Peraltro, aggiungeva la Corte d'Appello, era emerso in sede istruttoria che il ricorrente, nell'ultimo periodo, controllava undici telai, cioè il numero massimo di quelli controllati da un solo lavoratore, e che, per una notte, gli era stato richiesto di seguire contemporaneamente sedici telai e di seguire i cinque telai in più nella mezz'ora di pausa, con la conseguenza che il comando aziendale era, dunque, doppiamente illegittimo, non solo sotto il profilo dell'anomalo carico di lavoro assegnato senza previo accordo con il delegato sindacale, ma anche sotto il profilo del mancato rispetto della salute del lavoratore e della sua sicurezza.

Poiché il provvedimento adottato di mutamento del turno non costituiva una scelta imprenditoriale ragionevole, la Corte territoriale concludeva per considerare illegittimo il trasferimento in esame per l'insussistenza dei presupposti di cui all'art. 2103 cod. civ. e per la sua natura ritorsiva ed ontologicamente disciplinare, rimanendo fortemente indiziante lo strettissimo rapporto cronologico tra il rifiuto del lavoratore di accettare l'assegnazione di altri telai ed il provvedimento aziendale di mutamento del turno, seguito a distanza di tre giorni dalla contestazione disciplinare, e che giunge al posto di una (altrimenti prevedibile) sanzione disciplinare che, verosimilmente, il datore di lavoro non ha irrogato perché consapevole che essa sarebbe stata illegittima, per le ragioni sopra esposte (illegittimità della pretesa aziendale di assegnare altri telai al lavoratore e legittimità del suo rifiuto).

Peraltro, evidenziava il giudice di appello, la natura disciplinare del provvedimento aziendale è svelata, oltreché dal rapporto cronologico, dal tenore letterale della stessa lettera di trasferimento, che ha valenza quasi confessoria ("per evitare il verificarsi di fatti molto incresciosi": ovverosia, come quelli accaduti appena tre giorni prima) e dal fatto di non essere il trasferimento giustificato da alcuna altra ragione tecnico-organizzativa diversa dalla pretesa incompatibilità ambientale, rilevatasi del tutto inconsistente, né da altri motivi inerenti l'attività produttiva.

Al ricorrente veniva riconosciuto anche il risarcimento del danno morale e del danno esistenziale, inteso, dal giudice di appello, il primo quale mero dolore o patema d'animo interiore ed il secondo come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva o interiore, ma oggettivamente accertabile) che alteri le abitudini e gli assetti relazionali propri del soggetto, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tali danni erano liquidati a titolo equitativo e in misura forfettaria tenendo conto della lunga durata dell'illegittima adibizione del lavoratore al turno diurno, della natura ontologicamente disciplinare e estorsiva del provvedimento aziendale, della visibile lesione della dignità e dell'immagine professionale subite dal lavoratore nel contesto aziendale, nonché del rilevante disagio psichico e psicosomatico patito a causa dell'alterazione dell'abituale ritmo sonno/veglia e delle conseguenti ripercussioni sull'organizzazione della vita familiare e di relazione.

La società si rivolgeva con ricorso alla Corte di Cassazione, e, tra i diversi motivi di censura sollevati, contestava che il mero nesso di successione cronologica tra la contestazione degli addebiti disciplinari non seguita da alcuna sanzione ed il successivo trasferimento del dipendente potesse costituire un sicuro criterio di giudizio per ritenere il carattere effettivamente punitivo di tale trasferimento e la sua conseguente illegittimità siccome sanzione atipica.

In proposito, la Suprema Corte rileva che la Corte territoriale non ha affatto ritenuto la natura ritorsiva e di sanzione disciplinare atipica del provvedimento contestato basandosi unicamente sul criterio cronologico, ma ha fondato la sua decisione su un complesso di considerazioni, nell'ambito delle quali il rapporto cronologico tra il rifiuto da parte del lavoratore della richiesta datoriale di aumento dell'assegnazione dei telai e il provvedimento impugnato viene indicato soltanto come "fortemente indiziante".

Inoltre, l'illegittimità della richiesta datoriale è stata correttamente dichiarata sulla base della riscontrata esistenza di una prassi aziendale per la quale, prima di aumentare l'assegnazione del numero dei telai, doveva essere concluso con il delegato sindacale un apposito accordo, nella specie non verificatosi, e, al contempo, perché la parte datoriale non poteva obbligare il lavoratore a rinunciare alla pausa.

In conclusione, si ribadisce che in caso di modifica totale, repentina ed unilaterale da parte del datore di lavoro del turno di lavoro del proprio dipendente, avente fini ritorsivi, a quest'ultimo spetta il ripristino del vecchio orario ed il danno patrimoniale da lucro cessante.

La sentenza in rassegna si colloca nell'ambito di quell'orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, secondo il quale, se da un lato è consentito dall'art. 2103 cod. civ. che il dipendente possa essere adibito alle mansioni, in alternativa a quelle per le quali è stato assunto, a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte e che il trasferimento del lavoratore da una unità produttiva ad un'altra possa avvenire soltanto in presenza di "comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive", dall'altro il mutamento delle mansioni o il trasferimento stesso del lavoratore assumono natura ontologicamente disciplinare ove siano ricollegabili ad una mancanza del lavoratore e non siano conseguenti all'esercizio del potere organizzatorio e gestionale del datore di lavoro.

In conformità, si è espressa la Suprema Corte in una fattispecie piuttosto suggestiva: il responsabile della vigilanza di una importante officina ferroviaria, sorpresi sette lavoratori intenti al gioco con le carte, con consistenti puntate in denaro, nei locali dello spogliatoio e durante l'orario di lavoro, ritrattava la versione dei fatti affermando di non aver visto né carte da gioco, né denaro. Per tale motivo la società instaurava nei suoi confronti un procedimento disciplinare, all'esito del quale, gli veniva irrogata la sanzione di tre giorni di sospensione, mentre, a distanza di pochi giorni, il lavoratore veniva spostato dalle mansioni di addetto alla vigilanza a quelle di addetto al magazzino.

La Corte ha dichiarato l'illegittimità sia della sanzione disciplinare, sia del mutamento di mansioni. In ordine a quest'ultime, ha affermato il principio per cui: "Ove il mutamento di mansioni equivalenti segua immediatamente ad una contestazione disciplinare e ad una prima sanzione disciplinare, senza essere accompagnata da una autonoma motivazione, in maniera tale da far ragionevolmente ritenere che il comportamento sanzionato sia stata la ragione determinante, o comunque prevalente, della sottrazione delle mansioni, non può negarsi che quel provvedimento assuma tutti i connotati ed i contenuti punitivi tipici di una sanzione disciplinare. Tale contenuto ontologicamente punitivo, di per sé idoneo ad incidere sulla immagine e dignità del lavoratore, reclama l'adozione delle cautele previste dall'art. 7 dello Statuto dei lavoratori, non potendosi negare l'interesse del lavoratore a difendere la sua dignità ed immagine di fronte ad una contestazione inesistente" (Cass. 19 novembre 1997, n. 11520).

In applicazione degli stessi criteri (anche se la Corte è addivenuta a conclusione diversa) è stata esclusa la natura disciplinare del trasferimento ad altro reparto - con mansioni equivalenti - di un lavoratore addetto alla sorveglianza, il quale, pur accusato della sottrazione di due cartoni di detersivo ed alcuni timer per lavatrici, era rimasto, all'esito degli accertamenti, immune da ogni addebito, attesa l'impossibilità di ricostruire con chiarezza i fatti, ancorché risultasse certo che il medesimo fosse restato, per un certo periodo, da solo e avesse tentato di avvicinare i colleghi per concordare una versione dei fatti. Secondo la Cassazione, tali circostanze avevano comunque minato il rapporto fiduciario e inciso negativamente sui rapporti tra colleghi di reparto, così da indurre il datore all'anzidetto trasferimento, considerato pienamente legittimo (Cass. 17 marzo 2009, n. 6462).

Volendo citare una recente decisione del giudice di merito sull'argomento (Trib. Trieste, 22 marzo 2011), si può evidenziare che è stato annullato il trasferimento disposto da una appaltatrice del servizio di pulitura degli uffici postali della Regione Friuli Venezia Giulia e della Provincia di Trieste nei confronti di una lavoratrice, la quale sosteneva che il trasferimento non era stato motivato da ragioni tecniche, organizzative e produttive, e richiedeva la riassegnazione nella sede originaria. Il Tribunale non ha ritenuto provata la tesi della società, secondo la quale il trasferimento era stato imposto dalla negativa valutazione espressa dall'appaltante sul servizio espletato dalla ricorrente, di cui era stata sollecitata la sostituzione. Piuttosto, ha osservato il Tribunale, è emerso che la lamentata insoddisfacente qualità del servizio prestato dalla lavoratrice era dipeso in realtà dalle scelte organizzative operate dalla stessa datrice di lavoro, che aveva assegnato alla ricorrente numerosi uffici, ubicati anche a notevole distanza, con tempi di spostamento tra l'uno e l'altro tali da erodere significativamente il tempo disponibile per il servizio e da costringerla ad operare non soltanto alla presenza dei dipendenti della committente, già limitativa della possibilità di operare efficacemente, ma persino del pubblico.

Gli effetti della "ritorsività" dei provvedimenti presi dal datore di lavoro si fanno sentire, sotto il profilo della violazione della procedura di contestazione, ovviamente, anche sull'atto estintivo del rapporto di lavoro, ovvero sul licenziamento. Limitandoci a riportare una recente sentenza della Suprema Corte, è stato affermato che: "Il divieto di licenziamento discriminatorio - sancito dall'art. 4 della legge n. 604 del 1966, dall'art. 15 della legge n. 300 del 1970 e dall'art. 3 della legge n. 108 del 1990 - è suscettibile di interpretazione estensiva sicché l'area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia, che costituisce cioè l'ingiusta e arbitraria reazione, quale unica ragione del provvedimento espulsivo, essenzialmente quindi di natura vendicativa. In tali casi, tuttavia, è necessario dimostrare che il recesso sia stato motivato esclusivamente dall'intento ritorsivo". Per tali ragioni, la Cassazione ha confermato la sentenza impugnata che, nel constatare che il licenziamento era stato disposto "a causa delle posizioni rigide e polemiche" assunte dal lavoratore nei confronti della società datrice di lavoro e rese pubbliche dalla stampa, aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento disciplinare adottato in violazione delle procedure richieste dalla legge, pur senza ritenere che il licenziamento stesso potesse essere considerato un atto vendicativo o di rappresaglia (Cass. 18 marzo 2011, n. 6282).

In effetti, già da alcuni decenni le Sezioni Unite hanno esteso, in base a quanto stabilito dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 204 del 1982, l'applicazione delle garanzie previste dal secondo e terzo comma, art. 7, L. n. 300 del 1970, (contestazione preventiva dell'addebito e successiva audizione e difesa del lavoratore incolpato) a qualsiasi tipo di licenziamento "ontologicamente" disciplinare, prescindendo cioè dalla sua espressa inclusione tra le sanzioni poste dalla normativa collettiva o predisposte dal datore di lavoro (Cass. S.U. 1° febbraio 1988, n. 935).



23 novembre 2011

CUB-FLAICA


1 commento:

Anonimo ha detto...

MOLTO INTERESSANTE. SE SI HA LA PAZIENZA DI LEGGERLO TUTTO SI CAPISCE CHE IL RAGIONAMENTO NON FA UNA PIEGA.
SAPPIAMO TUTTI CHE ATTI RITORSIVI DI QUESTO GENERE NON SONO POI COSI' RARI.