Le Coop, dopo aver strapagato le azioni della famiglia Ligresti cercano di evitare l'«Opa», l'offerta pubblica di acquisto, che gli imporrebbe di estendere lo stesso trattamento anche ai piccoli azionisti.
Sorge spontanea la domanda: per quale motivo una società che si ispira agli ideali della cooperazione si presta a questo non limpido gioco?
Sorge spontanea la domanda: per quale motivo una società che si ispira agli ideali della cooperazione si presta a questo non limpido gioco?
La legge sull’Opa, ha quale obiettivo primario proprio quello di evitare che le azioni di qualche azionista valgano più di quelle degli altri. Unipol invoca una norma della legge che consente alla Consob di esentare dall’Opa gli acquisti di azioni effettuati per operazioni di salvataggio. A prescindere dagli specchi su cui si arrampicheranno i consulenti legali, la giustificazione in questo caso non tiene.
Sul piano sostanziale della tutela delle regole elementari di un mercato sano, non c’è dubbio che l’Opa dovrebbe essere imposta anche per le società controllate da Premafin.
Sul piano sostanziale della tutela delle regole elementari di un mercato sano, non c’è dubbio che l’Opa dovrebbe essere imposta anche per le società controllate da Premafin.
Per salvare Ligresti, Mediobanca ha architettato un’operazione che consente di prendere due, anzi tre, piccioni con una fava. Peccato che, come al solito, il tutto avvenga ai danni degli azionisti di minoranza. Se si escludono i poveri risparmiatori, tutti ci guadagnano. Le banche, Mediobanca in testa, salvano i loro prestiti che ormai ammontano a 1, 5 miliardi; i Ligresti vengono generosamente ricompensati per aver portato sull’orlo del dissesto compagnie un tempo floride; Unipol, il salvatore, paga (ma a caro prezzo) il suo desiderio di crescere ulteriormente nel settore e soprattutto la sua smania di entrare a pieno titolo nel “salotto buono” della finanza italiana, repressa fin dai tempi della sventurata scalata a Bnl.
L’architettura dell’operazione è troppo complicata per essere riassunta in poche righe; in sintesi, Unipol acquisisce la maggioranza di Premafin (società quotata) che a sua volta detiene la maggioranza di Fondiaria-Sai e di Milano Assicurazioni, pure quotate. Il prezzo per il controllo delle due compagnie è molto alto: secondo i calcoli di Lorenzo Dilena (Linkiesta. it) è più di sette volte il prezzo di Borsa dei giorni precedenti l’annuncio. Come se non bastasse, a ciascuno dei componenti della bella famigliola viene concessa una buonuscita per 5 anni pari a 700 mila euro l’anno pudicamente travestita da “patto di non concorrenza”, cioè un compenso per uscire dal business che hanno devastato: come pagare Schettino per non salire più sulla plancia di una nave. Ma non c’è limite alla riconoscenza dovuta a una famiglia che ha sempre dimostrato di essere organica al centro nevralgico della finanza italiana e acquisito molte benemerenze, fin da quando nei giorni caldi di Mani pulite, il patriarca, Salvatore, passò 112 giorni (Ferragosto compreso) a San Vittore chiuso in un ostinato silenzio, per arrivare ai tempi recenti in cui i Ligresti hanno partecipato, pur già in gravi difficoltà finanziarie, alla cordata voluta da Berlusconi e guidata da Banca Intesa per impedire che Air France assumesse il controllo di Alitalia.
C’è per fortuna un ostacolo prima che l’operazione si concluda ed è la legge sull’Opa, il cui obiettivo primario è proprio quello di evitare che le azioni di qualche azionista valgano più di quelle degli altri. In base a essa, il principesco valore riconosciuto alla famiglia Ligresti dovrebbe essere esteso a tutti gli altri azionisti. Ma Unipol da questo orecchio non ci sente: intende effettuare l’offerta su Premafin (e ci mancherebbe), ma chiederà alla Consob di essere esentata dall’Opa sulle due compagnie di assicurazione, guarda caso proprio quelle dove si pone in modo così netto il contrasto fra la valutazione delle azioni dei Ligresti e quelle degli altri azionisti. Come direbbe Jannacci, a costoro va detto solo “no, tu no”. Ma perché? Sempre come nella canzone: perché no.
Sorge spontanea la domanda: per quale motivo una società che si ispira agli ideali della cooperazione si presta a questo non limpido gioco? Sul tema varrà la pena di tornare, ma per ora basta ricordare che tecnicamente la società di via Stalingrado (anche la toponomastica può essere ironica) invoca una norma della legge sull’Opa che consente alla Consob di esentare dall’Opa gli acquisti di azioni effettuati per operazioni di salvataggio. A prescindere dagli specchi su cui si arrampicheranno i consulenti legali, la giustificazione in questo caso non tiene. L’operazione è congegnata con l’unico fine di riconoscere un compenso tanto eccezionale quanto immeritato ai Ligresti: ci sono molti altri modi per evitare il dissesto e far subentrare Unipol senza riempire le tasche della famiglia. Nel modo con cui è stata prospettata, l’operazione serve a salvare i Ligresti, non la società e dunque l’esenzione dall’Opa non può essere invocata.
Si badi che gli azionisti delle società in questione sono stati tartassati in tutti i modi, tanto che oggi Fondiaria-Sai vale in Borsa un ventesimo rispetto a cinque anni fa. I Ligresti (quelli che ottengono un compenso di 3,5 milioni a testa) sono stati un autentico Re Mida al contrario, in un settore in cui per perdere soldi occorre essere particolarmente dotati. Il fatto è che le perdite del gruppo sono arrivate soprattutto da operazioni che hanno portato le due società assicurative a comprare società (sempre controllate dai Ligresti) a prezzi elevati e che hanno prodotto successivamente perdite cospicue, come nel caso della società alberghiera Atahotels o addirittura a pagare i cavalli dell’amazzone di famiglia. Sempre, si capisce, ai danni degli azionisti di minoranza. Fintanto che questi comportamenti sono avallati dal fior fiore (si fa per dire) del capitalismo italiano, non c’è da meravigliarsi se la Borsa italiana è sempre più asfittica e se il paese cresce poco. Un sistema finanziario che premia in questo modo imprenditori (si fa sempre per dire) che sarebbero capaci di gestire in perdita un pozzo petrolifero saudita è afflitto da vizi profondi che possono portare al massimo alla conservazione del potere, non certo a generare risorse per tutti.
Da oggi, la patata bollente è sul tavolo della Consob. Sul piano formale non mancano gli argomenti per accettare le argomentazioni giuridiche degli azionisti di maggioranza (in base al principio che l’occhio del padrone ingrassa il cavillo), ma sul piano sostanziale della tutela delle regole elementari di un mercato sano, non c’è dubbio che l’Opa dovrebbe essere imposta anche per le società controllate da Premafin. La commissione guidata da Vegas finora ha assunto posizioni diverse: nella primavera del 2011, ha imposto l’Opa a Groupama (al che la società transalpina si è ritirata in buon ordine) mentre ha esentato Unicredit che partecipava in prima fila all’aumento di capitale. Qual è il precedente cui appellarsi? Chi ha a cuore gli interessi del mercato, non dovrebbe avere dubbi.
27 gennaio 2012
Marco Onado
Il Fatto Quotidiano
L’architettura dell’operazione è troppo complicata per essere riassunta in poche righe; in sintesi, Unipol acquisisce la maggioranza di Premafin (società quotata) che a sua volta detiene la maggioranza di Fondiaria-Sai e di Milano Assicurazioni, pure quotate. Il prezzo per il controllo delle due compagnie è molto alto: secondo i calcoli di Lorenzo Dilena (Linkiesta. it) è più di sette volte il prezzo di Borsa dei giorni precedenti l’annuncio. Come se non bastasse, a ciascuno dei componenti della bella famigliola viene concessa una buonuscita per 5 anni pari a 700 mila euro l’anno pudicamente travestita da “patto di non concorrenza”, cioè un compenso per uscire dal business che hanno devastato: come pagare Schettino per non salire più sulla plancia di una nave. Ma non c’è limite alla riconoscenza dovuta a una famiglia che ha sempre dimostrato di essere organica al centro nevralgico della finanza italiana e acquisito molte benemerenze, fin da quando nei giorni caldi di Mani pulite, il patriarca, Salvatore, passò 112 giorni (Ferragosto compreso) a San Vittore chiuso in un ostinato silenzio, per arrivare ai tempi recenti in cui i Ligresti hanno partecipato, pur già in gravi difficoltà finanziarie, alla cordata voluta da Berlusconi e guidata da Banca Intesa per impedire che Air France assumesse il controllo di Alitalia.
C’è per fortuna un ostacolo prima che l’operazione si concluda ed è la legge sull’Opa, il cui obiettivo primario è proprio quello di evitare che le azioni di qualche azionista valgano più di quelle degli altri. In base a essa, il principesco valore riconosciuto alla famiglia Ligresti dovrebbe essere esteso a tutti gli altri azionisti. Ma Unipol da questo orecchio non ci sente: intende effettuare l’offerta su Premafin (e ci mancherebbe), ma chiederà alla Consob di essere esentata dall’Opa sulle due compagnie di assicurazione, guarda caso proprio quelle dove si pone in modo così netto il contrasto fra la valutazione delle azioni dei Ligresti e quelle degli altri azionisti. Come direbbe Jannacci, a costoro va detto solo “no, tu no”. Ma perché? Sempre come nella canzone: perché no.
Sorge spontanea la domanda: per quale motivo una società che si ispira agli ideali della cooperazione si presta a questo non limpido gioco? Sul tema varrà la pena di tornare, ma per ora basta ricordare che tecnicamente la società di via Stalingrado (anche la toponomastica può essere ironica) invoca una norma della legge sull’Opa che consente alla Consob di esentare dall’Opa gli acquisti di azioni effettuati per operazioni di salvataggio. A prescindere dagli specchi su cui si arrampicheranno i consulenti legali, la giustificazione in questo caso non tiene. L’operazione è congegnata con l’unico fine di riconoscere un compenso tanto eccezionale quanto immeritato ai Ligresti: ci sono molti altri modi per evitare il dissesto e far subentrare Unipol senza riempire le tasche della famiglia. Nel modo con cui è stata prospettata, l’operazione serve a salvare i Ligresti, non la società e dunque l’esenzione dall’Opa non può essere invocata.
Si badi che gli azionisti delle società in questione sono stati tartassati in tutti i modi, tanto che oggi Fondiaria-Sai vale in Borsa un ventesimo rispetto a cinque anni fa. I Ligresti (quelli che ottengono un compenso di 3,5 milioni a testa) sono stati un autentico Re Mida al contrario, in un settore in cui per perdere soldi occorre essere particolarmente dotati. Il fatto è che le perdite del gruppo sono arrivate soprattutto da operazioni che hanno portato le due società assicurative a comprare società (sempre controllate dai Ligresti) a prezzi elevati e che hanno prodotto successivamente perdite cospicue, come nel caso della società alberghiera Atahotels o addirittura a pagare i cavalli dell’amazzone di famiglia. Sempre, si capisce, ai danni degli azionisti di minoranza. Fintanto che questi comportamenti sono avallati dal fior fiore (si fa per dire) del capitalismo italiano, non c’è da meravigliarsi se la Borsa italiana è sempre più asfittica e se il paese cresce poco. Un sistema finanziario che premia in questo modo imprenditori (si fa sempre per dire) che sarebbero capaci di gestire in perdita un pozzo petrolifero saudita è afflitto da vizi profondi che possono portare al massimo alla conservazione del potere, non certo a generare risorse per tutti.
Da oggi, la patata bollente è sul tavolo della Consob. Sul piano formale non mancano gli argomenti per accettare le argomentazioni giuridiche degli azionisti di maggioranza (in base al principio che l’occhio del padrone ingrassa il cavillo), ma sul piano sostanziale della tutela delle regole elementari di un mercato sano, non c’è dubbio che l’Opa dovrebbe essere imposta anche per le società controllate da Premafin. La commissione guidata da Vegas finora ha assunto posizioni diverse: nella primavera del 2011, ha imposto l’Opa a Groupama (al che la società transalpina si è ritirata in buon ordine) mentre ha esentato Unicredit che partecipava in prima fila all’aumento di capitale. Qual è il precedente cui appellarsi? Chi ha a cuore gli interessi del mercato, non dovrebbe avere dubbi.
27 gennaio 2012
Marco Onado
Il Fatto Quotidiano
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