Le vicende citate nell'articolo a seguire, riportano direttamente alla situazione dei magazzini Unicoop, dove la maggior parte del lavoro è gestita da una cooperativa esterna (CFT) e in cui, anche lì guarda caso, la maggior parte dei lavoratori sono stranieri. Ci siamo già occupati di questi lavoratori per le condizioni in cui sono costretti a lavorare e per la frequenza di incidenti che si verificano nei magazzini che derivano essenzialmente dai ritmi di lavoro infernali loro imposti. (Lavoratori Unicoop Blog)
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Negli ultimi tempi, nei molti incontri sparsi per l’Italia per parlare di immigrazione, clandestinità e lavoro, mi si chiede spesso – preso atto del cupo contesto – di indicare qualche esempio positivo, qualche speranza, qualche traccia da seguire.
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Tra le pratiche sociali che possano prefigurare qualcosa di diverso, mi accade di citare la lotta delle cooperative della logistica in Lombardia. Di Brembio e di Cerro si è generalmente parlato solo per le cariche della polizia ai presidi dei lavoratori delle coop in sciopero (video incidenti - che You tube ha censurato). Non si è però prestata molta attenzione alla valenza politica di questi fatti, da cui invece si può trarre qualche utile insegnamento.
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In questa vicenda infatti – il cui sviluppo più recente sono state le cariche a Cerro di Lambro il 12 febbraio – compaiono gli elementi tipici dello sfruttamento del lavoro migrante nel suo nesso con la precarietà del lavoro, la precarietà esistenziale, la frammentazione dei processi produttivi.
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A smistare le merci nei magazzini sono le cooperative, le quali (a dispetto del nome nel quale è stratificata tanta parte della storia e degli ideali del movimento operaio) sono oggi uno dei veicoli migliori dello sfruttamento dei lavoratori. Anche nel settore della logistica, diversamente dal resto dell’Europa, si è verificato il classico processo di esternalizzazione della produzione, assegnando la gestione dei magazzini attraverso appalti dati al massimo ribasso, pratica che di fatto scarica il rischio d’impresa sui lavoratori.
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Così, ad esempio,
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Una lotta difficile, in condizioni di lavoro dure (25, ma anche 40 chili alzati 145 volte all’ora), dove se hai problemi ti si lascia a casa il giorno dopo. Una lotta partita a Origgio da due lavoratori originari dello Sri Lanka, che dopo essersi rivolti negli anni a un paio di sindacati confederali hanno trovato la via dell’autorganizzazione, appoggiandosi allo Slai Cobas.
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Al primo sciopero erano in quindici, poi hanno aderito tutti, fino a strappare la sindacalizzazione e l’adeguamento salariale e contributivo. Essendo stata vincente, quella lotta è stata imitata in altri siti: Turate prima, poi Brembio e Cerro di Lambro. Ogni volta con esiti positivi. Ogni volta si trattava di rivendicare dignità in fabbrica, sconfiggendo il senso comune diffuso di rassegnazione a essere trattati come servi, e scoprendo che la lotta paga.
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Una lotta solidale, alla quale - come mi raccontava Abdullah, delegato marocchino di Turate, che al suo paese studiava letteratura inglese – hanno preso parte srilankesi, pakistani, filippini, marocchini, tunisini, nigeriani, senegalesi, albanesi. E molti italiani solidali, grazie all’appoggio del sindacato di base. Le diffidenze sono state piano piano superate, si è creata una comunicazione culturale man mano che si diveniva coscienti della comunanza degli interessi.
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«Sta nascendo un’identità nuova, c’è una collaborazione fra tutti» dice Abdullah. E anche da parte degli italiani (che nelle coop fanno quasi esclusivamente lavori d’ufficio) le cose sono iniziate a cambiare: «All’inizio c’era un po' di arroganza da parte loro. Dopo che abbiamo iniziato con la lotta sindacale è cominciata un po' di parità, ci rispettano. Quando cominci ad alzare la testa, a rifiutare lo sfruttamento, allora loro ti guardano in modo diverso, perché anche loro sono operai deboli». Alla base di tutto, dunque, la rivendicazione di una dignità negata. Esistenziale e dei diritti.
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Ecco, la rivolta di Rosarno è stata evocata da più parti in occasione dei riots di via Padova a Milano, per quelle però che non sono che analogie superficiali. Trovo invece molto più pertinente l’analogia tra Rosarno e la lotta di queste cooperative, dove un gruppo coeso e vasto di immigrati è insorto per rivendicare condizioni di lavoro giuste e, ancor prima, il proprio stato di dignità umana.
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Lunedì è il primo marzo, sciopero dei migranti. L’opportunità straordinaria che questa giornata offre è quella di creare una rete forte, una rete meticcia dove esperienze e pratiche di lotta e di costruzione di alternative possano venire scambiate, e divenire contagio in tutto il paese.
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28 febbraio
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Marco Rovelli
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Primo Marzo, stranieri in piazza
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