28 febbraio 2010

STRANIERI IN SCIOPERO

Gli scioperi dei soci lavoratori delle cooperative logistiche lombarde ci ricordano le difficili condizioni dei lavoratori che operano in appalto nei magazzini Unicoop Firenze



Le vicende citate nell'articolo a seguire, riportano direttamente alla situazione dei magazzini Unicoop, dove la maggior parte del lavoro è gestita da una cooperativa esterna (CFT) e in cui, anche lì guarda caso, la maggior parte dei lavoratori sono stranieri. Ci siamo già occupati di questi lavoratori per le condizioni in cui sono costretti a lavorare e per la frequenza di incidenti che si verificano nei magazzini che derivano essenzialmente dai ritmi di lavoro infernali loro imposti. (Lavoratori Unicoop Blog)

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Negli ultimi tempi, nei molti incontri sparsi per l’Italia per parlare di immigrazione, clandestinità e lavoro, mi si chiede spesso – preso atto del cupo contesto – di indicare qualche esempio positivo, qualche speranza, qualche traccia da seguire.

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Tra le pratiche sociali che possano prefigurare qualcosa di diverso, mi accade di citare la lotta delle cooperative della logistica in Lombardia. Di Brembio e di Cerro si è generalmente parlato solo per le cariche della polizia ai presidi dei lavoratori delle coop in sciopero (video incidenti - che You tube ha censurato). Non si è però prestata molta attenzione alla valenza politica di questi fatti, da cui invece si può trarre qualche utile insegnamento.

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In questa vicenda infatti – il cui sviluppo più recente sono state le cariche a Cerro di Lambro il 12 febbraio – compaiono gli elementi tipici dello sfruttamento del lavoro migrante nel suo nesso con la precarietà del lavoro, la precarietà esistenziale, la frammentazione dei processi produttivi.

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A smistare le merci nei magazzini sono le cooperative, le quali (a dispetto del nome nel quale è stratificata tanta parte della storia e degli ideali del movimento operaio) sono oggi uno dei veicoli migliori dello sfruttamento dei lavoratori. Anche nel settore della logistica, diversamente dal resto dell’Europa, si è verificato il classico processo di esternalizzazione della produzione, assegnando la gestione dei magazzini attraverso appalti dati al massimo ribasso, pratica che di fatto scarica il rischio d’impresa sui lavoratori.

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Così, ad esempio, la Bennet – la società di distribuzione che gestisce gli stabilimenti di Origgio e Turate, da dove la lotta si è propagata, magazzini che forniscono gli alimentari alla grande distribuzione in Lombardia – ha delegato alle cooperative la gestione dei magazzini abbattendo drasticamente i dipendenti diretti. La forza lavoro delle cooperative è quasi esclusivamente immigrata, visto che si tratta di un lavoro molto faticoso, con ritmi e tempi di lavoro intensissimi, e in molti casi a dirigere le cooperative ci sono prestanomi che ogni anno cambiano. Il contagio della lotta si è propagato da Origgio, dove 180 lavoratori delle cooperative hanno costretto la Bennet e la cooperativa di cui erano «soci» a accettare le condizioni contrattuali previste dalle legge 142 del 2001, alla quale aveva derogato lo stesso contratto nazionale firmato dai sindacati.

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Una lotta difficile, in condizioni di lavoro dure (25, ma anche 40 chili alzati 145 volte all’ora), dove se hai problemi ti si lascia a casa il giorno dopo. Una lotta partita a Origgio da due lavoratori originari dello Sri Lanka, che dopo essersi rivolti negli anni a un paio di sindacati confederali hanno trovato la via dell’autorganizzazione, appoggiandosi allo Slai Cobas.

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Al primo sciopero erano in quindici, poi hanno aderito tutti, fino a strappare la sindacalizzazione e l’adeguamento salariale e contributivo. Essendo stata vincente, quella lotta è stata imitata in altri siti: Turate prima, poi Brembio e Cerro di Lambro. Ogni volta con esiti positivi. Ogni volta si trattava di rivendicare dignità in fabbrica, sconfiggendo il senso comune diffuso di rassegnazione a essere trattati come servi, e scoprendo che la lotta paga.

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Una lotta solidale, alla quale - come mi raccontava Abdullah, delegato marocchino di Turate, che al suo paese studiava letteratura inglese – hanno preso parte srilankesi, pakistani, filippini, marocchini, tunisini, nigeriani, senegalesi, albanesi. E molti italiani solidali, grazie all’appoggio del sindacato di base. Le diffidenze sono state piano piano superate, si è creata una comunicazione culturale man mano che si diveniva coscienti della comunanza degli interessi.

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«Sta nascendo un’identità nuova, c’è una collaborazione fra tutti» dice Abdullah. E anche da parte degli italiani (che nelle coop fanno quasi esclusivamente lavori d’ufficio) le cose sono iniziate a cambiare: «All’inizio c’era un po' di arroganza da parte loro. Dopo che abbiamo iniziato con la lotta sindacale è cominciata un po' di parità, ci rispettano. Quando cominci ad alzare la testa, a rifiutare lo sfruttamento, allora loro ti guardano in modo diverso, perché anche loro sono operai deboli». Alla base di tutto, dunque, la rivendicazione di una dignità negata. Esistenziale e dei diritti.

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Ecco, la rivolta di Rosarno è stata evocata da più parti in occasione dei riots di via Padova a Milano, per quelle però che non sono che analogie superficiali. Trovo invece molto più pertinente l’analogia tra Rosarno e la lotta di queste cooperative, dove un gruppo coeso e vasto di immigrati è insorto per rivendicare condizioni di lavoro giuste e, ancor prima, il proprio stato di dignità umana.

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Lunedì è il primo marzo, sciopero dei migranti. L’opportunità straordinaria che questa giornata offre è quella di creare una rete forte, una rete meticcia dove esperienze e pratiche di lotta e di costruzione di alternative possano venire scambiate, e divenire contagio in tutto il paese.

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28 febbraio

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Marco Rovelli

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Il Manifesto

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Primo Marzo, stranieri in piazza

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