14 maggio 2011

LA DURA VITA DELLE COMMESSE



Poche centinaia di euro, contratti "pericolosi" o direttamente in nero

Alcune sono addirittura socie dei negozi, ma se restano incinte perdono il lavoro




"Siamo quasi tutte donne. N'uomo quando ce l'avrebbe tutta sta' pazienza?". Alessia piega sul bancone una maglietta che mi sono appena provata - stile indiano ma rigorosamente Made in China - in un negozio di Centocelle molto noto tra gli affezionati dell'etnico. "O dici il nome mio o dici il nome del negozio", mi dice quando le spiego che voglio scrivere un articolo sulle commesse. Ha paura, forse, che qualcuno la licenzi. Ma quando glielo chiedo si mette a ridere e mi fa sentire stupida: "E mica ce l'ho un contratto io. Lavoro ad ore". Mi dice che studia all'università e da quando fa le superiori lavora il week end come commessa a 5 euro l'ora. "Se domandi qui in zona mica ce l'hanno tutte il contratto e se ce l'hanno è d'apprendistato oppure part-time, ma per finta. In busta paga hai 600-700 euro e il resto a nero. Se te 'sta bene è questo, oppure vai a lavorà da un'altra parte. È così".

Le chiedo se ha sentito la storia di Sara, la ragazza che lavorava nel negozio Tezenis del centro commerciale Porta di Roma, picchiata dalla datrice di lavoro perché si rifiutava di firmare le dimissioni. Non ne sa niente. Le Iene hanno fatto un servizio sulla sua storia e un gruppo Facebook nato in suo nome ha indetto due sit-in di protesta davanti al negozio, facendolo chiudere. "Hanno fatto bene", dice, e poi non mi dà più retta, comincia a servire un'altra ragazza.

Silvia invece lavora in negozio di vestiti a via del Corso, pieno centro di Roma. Contratto regolare. 1300 euro netti al mese. Tredicesima e malattia. "Ho solo qualche problema per prendermi giorni liberi. E gli straordinari spesso non sono pagati, ma non mi lamento. Ho amiche che lavorano da altre parti e prendono la metà di quello che prendo io, senza poter decidere niente". Le domando se pensa di fare questo lavoro per sempre. Non ne ha idea. "Finché posso. Poi magari con una famiglia sarà difficile lavorare tutti i giorni anche i festivi fino a sera. Ma per ora sono giovane e non mi preoccupo". Ha 27 anni e ha sempre fatto la commessa nello stesso negozio da quando ne ha 19.

Giusy, invece, ha 24 anni e fa la commessa da poco. Prima lavorava in una specie di call center, e prima ancora in una panetteria. "Ma in panetteria avevo orari assurdi", dice, "e al call center ci sono stata poco, nemmeno due mesi. Qui al negozio sto bene. Mi piace il lavoro". È una ragazza sorridente e solare, con l'aria svagata. Dice che studiare non le è mai piaciuto e ha sempre preferito lavorare. Spalanco gli occhi quando mi dice che adesso le danno 500 euro al mese e che i primi tre mesi ne prendeva 400. Ma per lei è normale. "Questi sono i prezzi", dice. Non sa nemmeno spiegarmi che tipo di contratto ha. "Firmo una busta paga da 800 euro al mese e quando lavoro i festivi mi pagano extra. Trenta, certe volte 40 euro". Il negozio è piccolo. Lei è sola ma il proprietario è andato alla posta e tornerà presto. Mi domando se continuerà a piacerle quel lavoro anche tra qualche anno.

Il mondo delle commesse è una specie di vetrina dove sei sempre sotto gli occhi di qualcuno. L'occhio più "pesante" però è quello della proprietaria o del proprietario, per cui dalla tua capacità di vendita e ordine deriva il guadagno. Per alcune è uno stress insopportabile a volte, per altre una cosa normale. Anche se il settore dovrebbe tutelare chi ci lavora con un contratto nazionale, ti rendi subito conto che se chi ti serve è giovane, e soprattutto se si trova in periferia, molto probabilmente non avrà molte tutele, se non nessuna.

In rete riesco a contattare Bruna. 33 anni. Madre di due figli. Ha lavorato da Intimissimi, che fa parte del gruppo Calzedonia Spa, lo stesso di Tezenis, e ha smesso quando ha partorito la prima volta. Mi spiega che lei era una specie di socia del negozio, mi parla di un'associazione in partecipazione di cui alla fine dell'anno a lei spettava il 10% degli utili. "Solo che non ho mai preso una lira visto che in un modo o nell'altro eravamo sempre pari, se non in perdita", racconta. I primi due anni di lavoro li ha fatti con un contratto di apprendistato. 800 euro circa al mese per 40 ore la settimana, senza mai decidere "se una domenica dovevi lavorare o meno". "Mi spostavo da un negozio all'altro, perché il proprietario avevo tre negozi della stessa catena. Andavo anche a Frascati, dove c'era un altro punto vendita. E lì si restavamo aperti fino alle 22. Prendevo l'incentivo notturno, ma non ero libera di rifiutare l'orario". Poi l'azienda Calzedonia ha deciso di assorbire uno dei negozi con tutto il personale, tra cui lei. "Quando sono andata a firmare per il nuovo contratto mi hanno detto che avrei dovuto lavorare direttamente per Calzedonia, invece mi hanno presentato una donna dicendomi che era il mio capo. All'inizio avevo il contratto da commessa regolare, poi mi hanno chiesto di entrare in questa associazione a partecipazione così avrei avuto gli utili e sarei stata più motivata nel lavoro".

Tentata dalla possibilità di maggior guadagno e libertà Bruna accettò. "Era un incubo. Quando vendevi meno dell'anno precedente l'azienda ti mandava la psicologa che ti addossava tutta la responsabilità, dicendo che se vendevi poco significava che eri poco motivata. Diceva sempre: 'Ci devi credere, devi vendere. Quando entra una cliente devi essere convinta che le venderai qualcosa. Altrimenti non succederà'", mi racconta con un po' di ironia. "Pensavo che questo tipo di contratto fosse una cosa buona all'inizio, che mi desse libertà, ma mi sbagliavo. Ero sempre sotto controllo. Avevamo un conta persone all'ingresso del negozio e battevamo uno scontrino personalizzato, che indicava il nome della commessa che aveva portato a termine l'acquisto, così potevano controllare chi vendeva meno delle altre. C'era anche lo scontrino medio di 30 euro, che ti diceva quanto dovevi fatturare all'incirca per ogni persona al giorno. Se entravano 15 ragazzine e compravano solo un paio di mutande non contava niente per loro. Era colpa tua che non sapevi vendere. Ogni sera dovevo telefonare per comunicare l'incasso a una persona che non avevo mai conosciuto ed erano sempre storie sulla motivazione eccetera".

Il contratto di associazione a partecipazione di Bruna non prevedeva la liquidazione né la maternità.
"Quando ero incinta all'ottavo mese mi hanno detto che mi dovevo licenziare. Se non volevo farlo, per mantenere il posto, avrei dovuto trovare un'altra persona e pagarla di tasca mia, visto che ero una socia. Mi avevano assicurato che però dopo la maternità sarei potuta tornare, ma non è stato così". Un contratto a regola d'arte, quello delle commesse-socie, sfruttato in maggioranza dalle grandi catene di negozi.

Abbiamo chiesto un commento a Calzedonia, ma la risposta è stata che l'azienda "per il momento non ha nulla da dichiarare su questo argomento".

Liliana invece ha lavorato in un negozio di sport alla stazione Termini per 4 anni. Alla fine era anche diventata una sorta di responsabile degli altri dipendenti. È stata rapinata tre volte durante il turno di lavoro, una volta con la pistola, due volte con il coltello. Dopo l'ultima rapina ha deciso di andare via. "Ero a nero all'inizio e anche durante la prima rapina. Poi ho firmato un part-time a 700 euro anche se facevo turni perfino di 15 ore al giorno. Il proprietario aveva tre negozi in centro e io facevo l'apertura a due di questi. La promessa era che poi tutto sarebbe migliorato, anche lo stipendio, ma non è mai stato così. Non ho mai potuto scegliere un giorno libero, nemmeno quando mi sono operata a una gamba. I nostri turni erano a incastro e se una persona mancava a me toccava restare perché non c'era nessuno che la sostituiva". Ora Liliana lavora in un bar del Pigneto, a Roma. Si trova meglio e lavora meno ore, anche se non guadagna molto di più.

Mentre penso che forse aveva ragione Alessia, che quello della commessa è una lavoro da donne che hanno più pazienza, entro in una profumeria della Stazione Termini e mi si avvicina un commesso uomo. Non ho voglia di fargli domande sullo stipendio, la produttività e le vendite. Così do un'occhiata e vado via.



13 maggio 2011

Sara Picardo

rassegna.it





1 commento:

Anonimo ha detto...

Ciao, io sono stata consulente di zona fino a ieri, quando, appena rientrata dalla maternitá, sono stata licenziata in tronco! La motivazione? Poca motivazione da parte mia...che a 28 anni, neolaureata col massimo dei voti e con un master sono stata inviata immediatamente in giro per l'Italia per 3 mesi per seguire il percorso di formazione durante il quale ho avuto modo di cooscere le peggiori persone che potessi incontrare sul lavoro e nella vita. Tornavo a casa per un giorno ogni due settimane, a volte 3, lavoravo h24 e "imparavo" a piegare magliette e ingrucciare reggiseni ( perchè i consulenti devono fare anche questo). Finchè non mi è stata assegnata la zona: Napoli e dintorni. Due mesi ancora fuori casa, in una cittá sconosciuta e complicata dove ho continuato a lavorare h24 e dove dovevo anche trovare il tempo per cercarmi una casa. Dopo qualche mese sono rimasta incinta: al sesto mese di gravidanza avevano assolutamente bisogno del mio aiuto per riallestire un negozio appena rimesso a nuovo: e via con spostamenti di barre di ferro da 2 metri su e giù ( senza alcuntipo di dispositivo antinfortunistico ), sollevamenti di manichini e continui piegamenti sulle ginocchia...poi è emersa una nuova esigenza: sistemare un magazzino polveroso nel pieno del caldo di giugno. Ero sempre incinta!! Ma evidentemente questa non era MOTIVAZIONE e non mi sono impegnata abbastanza...peccato che abbia sempre raggiunto gli obiettivi e abbia anche vinto dei premi budget! Ma la mia maternitá pare sia diventata improvvisamente un handicap, tant'è che il direttore commerciale Enrico Cipriani era (testuali parole) "molto deluso"! Questa è CALZEDONIA SPA.