La contraddizione tra costo del lavoro e produttività ha esposto le cooperative a feroci critiche sia dai sostenitori della competitività tra imprese sia di quelli chi sono attenti alla dimensione del salario e del costo del lavoro.
Chi non ricorda il Cofferati barricadero che da segretario della Cgil le denunciava come fossero addirittura «covi del lavoro nero»
Altro che figli di un dio minore. Altro che raccontarlo sino a qualche anno fa, all'epoca del liberismo e del mercatismo spinto, come il residuo di un passato mutualistico che sapeva di Ottocento e primi del Novecento. Il sistema cooperativo pare oggi al centro della scena. Sarà per l'interesse che, dopo la crisi finanziaria dei sorvolatori del mondo, suscita tutto ciò che sa di territorio e di radicamento.
Sarà per l'attenzione verso il dialogo delle tre grandi centrali cooperative che hanno iniziato ad andare oltre le appartenenze storiche di territorio. Facendo intravedere un robusto polo economico nel frammentato capitalismo italiano. Forse anche perché, a proposito di Parmalat, per contenere i cugini francesi servono i decreti governativi sui settori strategici, le cordate difensive organizzate dalle nostre banche di sistema, ma poi serve un progetto industriale.
E allora, oltre alla privatissima e liquidissima Ferrero, si evoca Granarolo e la sua rete di cooperatori come cavalieri bianchi. Si era già avvertito un venticello di cambiamento. Basti ricordare la due giorni al Sole 24 Ore organizzata dalla Lega Coop, con tanto di premio nobel dell'economia e dibattito con l'ispiratore della Big Society del premier inglese Cameron. Adesso arriva un rapporto della Banca d'Italia che mette a fuoco le cooperative come un asse del sistema produttivo italiano.
I numeri, sino ad oggi nascosti sotto il tappeto, ci dicono che, secondo il censimento del 2001, le cooperative (escluse le sociali e le finanziarie) erano 46mila e rappresentavano il 4,6% degli addetti.
Nel settore agricolo, altro figlio di un dio minore salvo poi accorgersi che Parmalat è strategica, il 40% degli addetti appartiene ad una cooperativa.
Nel settore dell'autotrasporto che, piaccia o non piaccia, vuol dire logistica, il 13% appartiene ad una cooperativa sino a toccare il 21% nel Nord est. La dimensione media dell'impresa, udite udite a proposito di nanismo, è di 15 addetti a fronte del 3,8 delle imprese tradizionali.
Il rapporto segnala che dal 2001 al 2009 la dimensione delle imprese cooperative italiane rimane superiore alla media senza però che questo abbia effetto sulla produttività che rimane inferiore alle imprese capitalistiche del 27%. Minor produttività compensata dal contenimento del costo del lavoro, minore del 21% rispetto alle imprese tradizionali.
Questo ha salvaguardato i profitti. La contraddizione tra costo del lavoro e produttività ha esposto le cooperative a feroci critiche sia dai sostenitori della competitività tra imprese sia di quelli chi sono attenti alla dimensione del salario e del costo del lavoro. Chi non ricorda il Cofferati barricadero che da segretario della Cgil le denunciava come fossero addirittura «covi del lavoro nero».
Agli uni e agli altri si risponde che la flessibilità del costo del lavoro rimanda, oltre che all'antropologico scambio tra senso e reddito, anche al mutualistico disporre di ammortizzatori che aiutano nei momenti di crisi e mantengono il rapporto col socio lavoratore. Tesi tutt'altro che teorica visto che anche nella grande crisi le imprese cooperative non hanno perso addetti. Anzi, spesso la forma cooperativa è stata usata dentro la crisi industriale per ripartire di nuovo andando oltre la cassa integrazione.
Certo gli investimenti per addetto delle cooperative sono inferiori a quelli effettuati dalle imprese tradizionali e il settore ha una più bassa propensione all'export e all'internazionalizzazione. Qualcuno sostiene che sia il peso e il prezzo dovuto al radicamento territoriale. A fronte del 79% delle imprese tradizionali che si avventurano sulle reti lunghe dell'export, solo il 65% delle cooperative lascia la tana del lupo, il territorio, per rischiare e investire altrove.
Per capirne di più, per andare più in profondità, serve inoltrarsi nel micro/macrocosmo cooperativo della regione dove c'è la Parmalat, la Granarolo e le due culture sociali che stanno alla base del mutualismo cooperativo: quello social comunista e quello del cattolicesimo sociale che si incontrano in Emilia Romagna.
Qui le cooperative di produzione e lavoro occupano 69mila persone e le cooperative sociali 37mila. Sono numeri entrambi da grande impresa di produzione e da grande impresa dei servizi. Nel microcosmo dell'Emilia Romagna i limiti evidenziati a livello nazionale diventano ancora più stridenti. Per il 40% delle cooperative emiliano romagnole il competitor produttivo è localizzato nella stessa provincia e per un altro 40% in ambito regionale. Se ne deduce che solo il 20% va oltre il policentrismo provinciale e oltre la regione mamma.
La crisi ha fatto tornare anche il tessuto della cooperazione ai fondamentali. Si sono concentrati sul core business, produttivo o di servizi, esternalizzando le funzioni pregiate, dalla progettazione all'ingegneria ai sistemi informatici al marketing e alla comunicazione. Oltre il 40% dei vertici delle cooperative dichiara che negli ultimi dieci anni ha rinunciato ad opportunità significative, date dall'ingresso di nuovi soci, per timori legati alla perdita di controllo della cooperativa stessa.
Il faro acceso da questo rapporto della Banca d'Italia sulla cooperazione e sulla sua regione di riferimento storico politico ci fa vedere quali saranno i punti nodali di evoluzione di questo settore che ha tutti i numeri per essere al centro della scena. A condizione che si chiarisca il suo rapporto con il capitalismo delle reti, ove alcune grandi cooperative sono protagoniste.
Dal settore delle costruzioni alla distribuzione sino alla logistica e perché no anche quello finanziario. Il suo rapporto con il territorio e la comunità originaria ove sono nate nella fase storica in cui il territorio non era fattore competitivo e la comunità era un dato e non, come oggi, un artificio sociale da costruire. Il suo rapporto, e soprattutto quello delle cooperative sociali, con la crisi del welfare che, in un'ottica di big society, vede le imprese sociali messe in mezzo tra un liberismo dall'alto e un mutualismo dal basso.
10 aprile 2011
Aldo Bonomi
Il Sole 24 Ore
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