29 agosto 2010

PER LE "COOP ROSSE" GLI AFFARI NON HANNO PIU' COLORE



Oggi le cooperative fanno di testa loro. La cinghia di trasmissione con il partito si è rotta. E per la prima volta la Legacoop diserta un dibattito alla festa dell'Unità



Per la prima volta nella storia delle Feste dell’Unità (ora Feste democratiche), la Legacoop ha annunciato che diserterà un dibattito (tema: l’economia cittadina) a Bologna, capitale delle coop rosse. Che cosa sta succedendo tra le cooperative e il più grande partito del centrosinistra? Che cosa si è rotto? Il caso Bologna è solo una spia, la più clamorosa, di una trasformazione in atto: le coop fanno di testa loro, la vecchia “cinghia di trasmissione” del partito non funziona più.

Certo, il contesto bolognese è del tutto particolare: nella città che è stata anche la capitale del comunismo italiano, il primo partito della sinistra litiga su chi indicare come candidato sindaco. E una battuta fuorionda del segretario bolognese del Pd, Raffaele Donini (“Cevenini non piace al patron di Unipol, Stefanini”), scatena addirittura la rissa.

Pierlugi Stefanini è il presidente del gruppo assicurativo del mondo coop Maurizio Cevenini è il candidato favorito. Eppure non è amato dalle coop, che ora cercano però di raffreddare gli animi: “È stato montato un caso giornalistico sulla semplice non partecipazione a un dibattito”, spiegano dalla sede bolognese di Legacoop. “Ma i dirigenti delle cooperative erano presenti, giovedì, all’inaugurazione della festa e le singole aziende coop continuano, come gli anni scorsi, a finanziarla con i loro stand e le loro sponsorizzazioni. Noi ci tiriamo fuori dalla tombola dei nomi. Per noi contano i progetti politici. Certo che un bolognese su due è o socio o dipendente di una coop: dunque è giusto che la politica ascolti il mondo della cooperazione”.

Circa un terzo delle entrate di tutte le (ex) Feste dell’Unità arrivano dalle aziende coop. Quest’anno come in passato, spiega Lino Paganelli, responsabile feste della direzione nazionale Pd. Se infatti dalle beghe bolognesi si allarga lo sguardo alla situazione complessiva, si deve prendere atto che comunque molto è cambiato da quando il primo partito della sinistra si chiamava Pci e le coop erano sotto il suo ombrello politico (con una piccola parte che faceva riferimento invece al Psi e al Pri). “La cinghia non trasmette più”, dice chiaro Carlo Ghezzi, a lungo dirigente sindacale e oggi presidente della Fondazione Di Vittorio della Cgil. “Una volta pesava l’appartenenza, dunque il rapporto con il partito. Oggi contano di più le spinte di categoria”.

“Sì, c’è stato un progressivo distacco delle coop dai partiti”, conferma Guido Galardi, vicepresidente di Coop Lombardia. Il Pci è diventato Pds, poi Ds, infine Pd. La cinghia di trasmissione si è prima allentata, poi sfilacciata. In alcuni casi, ha cominciato addirittura a girare al contrario: nell’estate 2005, era Giovanni Consorte, allora presidente di Unipol, a decidere le strategie, trascinando il partito nell’avventura della scalata a Bnl. Il segretario di allora, Piero Fassino, doveva limitarsi a chiedere (“Allora, siamo padroni di una banca?”) e a fare il tifo.

Rifondazione comunista non ha mai stretto rapporti organici con il mondo coop. E, oggi, neppure Sinistra e libertà. I comunisti italiani del Pcdi sono stati per un attimo la boa a cui si è aggrappato Gianni Donegaglia, il vecchio padre padrone della Coop Costruttori di Argenta, ma non gli sono serviti a evitare né i guai giudiziari né il fallimento dell’impresa.

Dal fatale 2005 delle scalate, sono successe due cose. Da una parte il partito che poi è diventato Pd si è trasformato in una formazione magmatica, dove è difficile trovare l’ingranaggio che possa far girare una qualsiasi cinghia di trasmissione. Ha addirittura qualche imbarazzo a mostrarsi a viso aperto come il rappresentante del mondo cooperativo. Come se temesse che gli elettori, dietro il richiamo ai valori della cooperazione (che ci sono), vedessero ormai soltanto affari, appalti, spartizioni. Sospetto fondatissimo, dopo la brutta esperienza dei “furbetti” e, prima ancora, il pesante coinvolgimento delle coop in Tangentopoli.

Dall’altra parte, il movimento cooperativo è diventato orgoglioso della propria separatezza. Nell’assemblea dei delegati coop che si è tenuta a Firenze nel maggio scorso, il ritornello martellante degli interventi era: autonomia, autonomia e ancora autonomia. Lontananza dalla politica e dai vecchi rapporti. “Ma c’era anche, nello stesso tempo, il dispiacere di non sentirsi più rappresentati da niente e da nessuno”, spiega Galardi. “La politica di centrosinistra non ha più il coraggio di farsi interprete dei valori del movimento cooperativo, un mondo che cerca di tenere insieme ideali e interessi, valori e mercato. Un grande partito dovrebbe almeno tentare”.

Il mondo di Legacoop è fatto di 7 milioni di soci, 15 mila imprese, 500 mila addetti. Produce il 7 per cento del pil. È coop il 40 per cento della grande distribuzione e la cooperazione è ben piazzata anche nel settore delle costruzioni, dei servizi sociali, dell’agricoltura, dell’abitazione. Nelle prime 150 aziende italiane, 30 sono coop.

Senza punti di riferimento, le coop rosse si sono in più d’una occasione trovate a fianco di Cl, che pure non ha peso nel movimento cooperativo. Patto degli affari, spartizione degli appalti, certamente.
“Ma attenzione, c’è anche un motivo semplice. E nobile”, fa osservare Galardi. “Siccome non c’è più un pezzo della politica che ci rappresenta più degli altri, allora il movimento cooperativo fa tratti di strada insieme a chi difende i valori della cooperazione e chiede leggi che difendano il settore”.

Resta comunque una convivenza difficile, quella tra valori e affari. In una lettera, difende l’orgoglio coop Gianpiero Calzolari, presidente di Legacoop Bologna: “Le cooperative non saranno mai omologabili all’impresa privata: non è l’ideologia, ma la proprietà collettiva che fa la vera differenza”.

28 agosto 2010

Gianni Barbacetto

il Fatto Quotidiano

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